NOT SPECIAL NEEDS | March 21 – World Down


Le parole sono importanti, sono l’alfabeto della nostra cultura. È da qui che bisogna partire: auto-educarci e educare a un linguaggio nuovo per scardinare pregiudizi, cambiare la cultura e di conseguenza la realtà che ci circonda.

Non si tratta solo delle parole bandite come “mongoloide”, piuttosto che della battaglia all’espressione “affetto da” o al termine “malattia”, combattuta ormai da anni e non ancora vinta peraltro. Ma è il momento di finirla anche con termini edulcoranti, ipocritamente politically correct come “diversamente abile” e “special needs”. Ne capisco le buone intenzioni, ma se non vogliamo scomodare l’ipocrisia in cui spesso inciampa il politically correct, almeno riconosciamo che usare questi termini nasconde spesso delle insidie.

Innanzitutto i bisogni delle persone con sindrome di Down non sono poi così speciali, per lo più sono bisogni umani come quelli di qualunque persona: studiare, avere degli amici, avere un lavoro, amare. Molte persone con disabilità e advocate lo hanno sostenuto in diversi articoli di recente. Ma la cosa che più mi preoccupa è il pregiudizio culturale che crea il concetto di “speciale” oltre che la solitudine e l’emarginazione che ne consegue.

Nella mia esperienza di mamma ho usato questo termine con mia figlia Emma dal primo giorno, forse avevo bisogno di abituarmi all’idea di avere una figlia con la sindrome di Down, una figlia diversa, e ho creduto di addolcire la pillola e di proteggerla, mentre in verità stavo negando lei. Mi sembrò meno duro e più delicato chiamarla “bambina speciale” e non mi resi conto di quanto fosse controproducente, e che stavo evitando di conoscerla davvero e allo stesso tempo la stavo chiudendo in una campana di vetro che l’avrebbe separata e resa ancora più diversa da quanto in realtà non fosse.

Le conseguenze negative sono state molteplici. Da una parte gli altri hanno cominciato a incasellarla in una definizione, dall’altra in lei cresceva una sorta di presunzione e di egocentrismo, come se il suo essere una bambina con disabilità le concedesse dei privilegi. Ci ho messo anni a capire che io per prima stavo complicando le cose, che chiamarla in un altro modo non avrebbe cambiato la sua vita, anzi.

L’ho imparato dagli altri miei figli quando protestavano per attenzioni eccessive, trattamenti di favore, comportamenti iperprotettivi o quando si chiedevano cosa dovevano fare per avere una maestra speciale tutta per loro o verifiche semplificate. Il loro percepito era confuso e distorto, e lo dovevo al mio linguaggio e al mio atteggiamento.

L’ho imparato dai compagni di scuola di Emma: sono stati loro a insegnarmi che Emma era Emma e basta. Ricordo un giorno in particolare in cui tutto mi è parso chiaro e semplice, quel giorno mi chiesero indispettiti: “Perché, noi non siamo forse speciali?” Mi pietrificarono, e dopo lunghi minuti d’imbarazzante silenzio risposi: “Certo che lo siete, tutti, ognuno a modo vostro. Sono io che mi sono sbagliata… fino ad oggi!” I bisogni di Emma erano i loro, e loro non la percepivano “speciale”, né diversa. Ne coglievano la fatica, la difficoltà a esprimersi, ma anche la determinazione, il coraggio e la simpatia. Emma aveva bisogno di strategie forse, di motivazioni, di fiducia, ma quale bambino non ne ha? Emma aveva bisogno di un diverso grado di assistenza da parte degli insegnanti o dei compagni stessi per andare incontro alle sue necessità, di aggiustamenti nelle proposte didattiche, ma questo non rendeva il suo bisogno di imparare, di comunicare o di costruire una relazione con i compagni un “bisogno speciale”.

Capii con l’esperienza che appiccicargli un’etichetta a priori impediva a chiunque di relazionarsi con lei senza pregiudizi, di darle una vera possibilità, le aspettative si ridimensionavano e diventavano tutti condiscendenti e lei era sempre più imprigionata in una definizione.

In questi 12 anni sono cambiate molte cose, tra queste è cambiato anche il mio vocabolario. Non uso più la parola “normale”, ma uso “tipico”, non uso più la parola “speciale”, ma uso “disabile”, non uso la parola “dono” e non considero mia figlia una supereroina, io non sono una “mamma speciale”, mia figlia è una ragazza con la sindrome di Down che vive la sua vita con dignità e con lo stesso desiderio di essere inclusa di chiunque altro. Preferisco chiamare le cose con il loro nome, #saytheword chiedono gli attivisti dei diritti dei disabili in giro per il mondo. Dire le cose come stanno mi permette di guardarle senza nascondermi e di affrontare la vita in modo diretto. E lo permette anche a Emma. Sento così di rispettare di più mia figlia e di darle la possibilità di definire la sua identità nel tempo pur facendo i conti con la sua disabilità.

Come genitori abbiamo una grande responsabilità, le persone che ci gravitano intorno per lo più non sanno come comportarsi, sono in imbarazzo e spaventate davanti a ciò che non conoscono, ci osservano e imparano da noi. Quando nostro figlio cresce vogliamo che sia trattato come tutti gli altri, ma tocca a noi cominciare a farlo e gli altri ci seguiranno! Verrà un giorno in cui il “trattamento speciale” non ci piacerà e tutti i vezzeggiativi che usiamo ci verranno a noia e cominceremo a chiamare nostro figlio solo per nome. Da quel giorno inizierà una nuova vita per lui, con le sue difficoltà e con le sue opportunità. Come tutti.

Dal chiamarli #bambinispeciali ad accettarli diversi e meravigliosamente unici c’è tanta strada, ma vale la pena farla! Offrire un trattamento speciale e concedere un privilegio garantisce il risultato opposto all’inclusione. Includere non significa costruire un mondo a parte a misura di chi è diverso, ma che ognuno ha il diritto di esprimere la propria individualità nella sua classe, nella sua comunità, nel suo paese, nel mondo, e le sue caratteristiche e la sua persona sono accettate e rispettate.

L’inclusione a cui aspiro per mia figlia non può prescindere da un cambiamento culturale e il cambiamento culturale non può prescindere da un cambiamento del linguaggio. La rivoluzione che sta dietro a quello che sembra superficialmente solo una pignoleria linguistica è straordinaria. È come passare da una vita in cui è il mondo che ti concede un posto speciale e ti riserva delle “cure”, ad una vita in cui rivendichi dei diritti, ti vengono riconosciuti, scegli e ti conquisti il tuo posto nel mondo.

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